Da tempo dottrina e giurisprudenza si interrogano sulla natura della responsabilità della pubblica amministrazione che agisce nell’esercizio delle sue funzioni pubbliche.
Secondo i giudici amministrativi la condotta della pubblica amministrazione è inquadrabile nell’alveo della responsabilità da fatto illecito ex articolo 2043 c.c.
In questo articolo, prendendo spunto da una vicenda processuale, analizzeremo le tesi sostenute dalla dottrina e le conclusioni a cui è pervenuta la giurisprudenza dell’Adunanza plenaria nella sentenza n 7 del 23 aprile 2021.
I fatti
Il contenzioso da cui hanno origine i fatti è stato promosso da una società attiva nel settore degli impianti di energia rinnovabile contro la Regione Sicilia.
In particolare, la società chiedeva la condanna della Regione al risarcimento dei danni subiti a causa del ritardo con cui l’amministrazione regionale, a fronte di istanze presentate dalla società tra il giugno del 2009 e il luglio del 2010, ha autorizzato, con decreti emessi nel 2013, la realizzazione e gestione di tre impianti fotovoltaici nel Comune dove doveva operare la suddetta società.
La società, a seguito del silenzio formatosi da parte dell’amministrazione, aveva già provveduto ad agire ai sensi dell’articolo 117 c.p.a, e poi in ottemperanza.
L’istanza alla condanna al risarcimento veniva avanzata in ragione del fatto che a causa del ritardo nel rilascio delle autorizzazioni l’investimento che avrebbe dovuto sostenere sarebbe divenuto antieconomico. Ciò per effetto dell’impossibilità di accesso al regime tariffario incentivante previsto dalla normativa di settore in vigore all’epoca dei fatti, successivamente abrogata da nuova legislazione.
Le questioni rimesse all’Adunanza Plenaria ai sensi dell’art. 99 c.p.a.
L’articolo 99 del Codice del processo amministrativo sancisce la possibilità per la sezione cui è assegnato il ricorso di rimettere lo stesso all’esame dell’adunanza plenaria, qualora rilevi che il punto di diritto sottoposto al suo esame ha dato luogo o possa dare luogo a contrasti giurisprudenziali; la sezione può procedere con ordinanza emanata su richiesta delle parti o d’ufficio.
Nel caso in esame le questioni ex art. 99 c.p.a. su cui l’Adunanza plenaria è chiamata a pronunciarsi concernono la natura della responsabilità dell’amministrazione pubblica per il ritardo nella conclusione del procedimento originato da un’istanza autorizzativa.
Le questioni portate all’attenzione dell’Adunanza Plenaria sono le seguenti:
“a) la condotta dell’Amministrazione posta in essere in violazione della regola di conclusione del procedimento amministrativo nella tempistica prescritta;
b) la fondatezza della pretesa concernente il bene della vita (come testimoniato dalla adozione, seppur in ritardo, dei provvedimenti autorizzatori);
c) la sopravvenienza normativa ostativa all’ottenimento degli incentivi, che la società avrebbe ottenuto se l’Amministrazione avesse provveduto per tempo;
d) la colpa dell’Amministrazione (nessuna esimente è stata da quest’ultima prospettata per giustificare il proprio non modesto ritardo nel provvedere)”.
L’ordinanza di rimessione, con specifico riguardo alla qualificazione della responsabilità della pubblica amministrazione, sosteneva che sarebbero maturi i tempi per una “revisione critica del regime consolidato di scrutinio della responsabilità dell’Amministrazione in una duplice direzione: assimilazione della responsabilità dell’Amministrazione alla responsabilità contrattuale e apprezzamento del ruolo del rapporto di diritto pubblico sotteso alla nascita dell’obbligazione risarcitoria”.
La natura della responsabilità della pubblica amministrazione
La prima questione esaminata dall’Adunanza Plenaria, e su cui concentreremo la trattazione, è quella relativa alla natura della responsabilità dell’amministrazione: secondo i giudici la condotta della pubblica amministrazione che agisce nell’esercizio delle sue funzioni pubbliche, è inquadrabile nell’alveo della responsabilità da fatto illecito.
Nel pervenire a tale conclusione l’Adunanza plenaria svolge un ragionamento che potremmo dire “al contrario”, perché origina dall’analisi della responsabilità contrattuale disciplinata dall’articolo 1218 c.c.: “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.
La responsabilità da inadempimento contrattuale si fonda sul non esatto adempimento della prestazione cui il debitore è obbligato in virtù del vincolo contrattuale di cui egli stesso è parte.
Al contrario, non è configurabile un simile vincolo obbligatorio in capo alla pubblica amministrazione che nell’esercizio delle sue funzioni amministrative agisce in funzione del soddisfacimento dell’interesse pubblico in virtù del quale le è stato attribuito il potere autoritativo.
Inoltre, a differenza di quanto avviene nella disciplina privatistica, tra la pubblica amministrazione e il privato non viene ad instaurarsi un vincolo obbligatorio dove uno è titolare di una posizione creditoria e l’altro di una posizione debitoria o entrambi vantano pretese nei confronti dell’altro; il rapporto giuridico che si crea tra l’amministrazione e il privato vede due situazioni giuridiche soggettive entrambe attive:
- in capo al privato, in quanto titolare dell’interesse legittimo;
- in capo all’amministrazione titolare del potere nell’esercizio della sua funzione.
Si può ulteriormente aggiungere un’altra differenza: se nei rapporti di diritto privato le parti sono poste in una condizione di parità contrattuale perché entrambe ereditano i propri diritti ed obblighi da un’unica medesima fonte, il contratto, nel caso del rapporto tra pubblica amministrazione e cittadino questa condizione di parità non si rinviene: il potere che è attribuito all’amministrazione origina direttamente dalla legge, che è quindi fonte e limite del suo esercizio. La PA, dunque, non si pone sullo stesso piano del privato, ma si colloca in una posizione di supremazia.
Nel confermare la propria impostazione interpretativa, l’Adunanza plenaria non appare sensibile neanche in relazione alla riconducibilità della responsabilità dell’amministrazione nel concetto di responsabilità da “contatto sociale”, ritenendo al contrario l’assenza di un qualsiasi tipo di connessione con il cittadino in virtù proprio della relazione asimmetrica che lo lega a quest’ultimo.
La tutela dell’interesse legittimo
Al termine dell’excursus sulla natura extracontrattuale della responsabilità della PA, l’Adunanza Plenaria passa alla disamina dei mezzi di tutela che l’ordinamento giuridico offre dinanzi alla lesione di interessi legittimi.
In un primo momento, l’Adunanza plenaria individua nell’azione costituiva di annullamento dell’atto amministrativo il mezzo di tutela più efficace (risalente alla legge istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato (legge 31 marzo 1889, n. 5992).
Tuttavia, l’evoluzione interpretativa che ha riguardato il concetto di interesse legittimo ha dimostrato come tale categoria sia passata dall’essere considerata una forma di interesse occasionalmente protetto, all’essere intesa come una posizione giuridica soggettiva legata ad un bene della vita coinvolto dall’esercizio del potere pubblico.
In relazione a questa nuova prospettiva sono state riconosciute ulteriori forme di tutela:
- strumenti di tutela procedimentale finalizzati ad orientare la discrezionalità dell’azione amministrativa, secondo la disciplina di carattere generale contenuta nella legge sul procedimento amministrativo (legge n. 241/1990);
- forme di tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive originate dall’esercizio del potere amministrativo, in accordo con quanto disposto dall’articolo1 del Codice del processo amministrativo: “Il processo amministrativo attua i principi della parità delle parti, del contraddittorio e del giusto processo previsto dall’articolo 111, primo comma, della Costituzione”;
- forme di tutela risarcitoria: fondamentale in tal senso la sentenza delle Sezioni unite della Cassazione 22 luglio 1999, n. 500, che ha stabilito il principio della risarcibilità degli interessi legittimi e ha quindi esteso la tutela risarcitoria anche nell’ambito del potere pubblico; ciò è avvenuto:
– nel settore delle procedure di affidamento di contratti pubblici (art. 13 della legge 19 febbraio 1992, n. 142);
– in materia edilizia, per il danno da ritardato rilascio del titolo a costruire (art. 4 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 398, convertito in legge 4 dicembre 1993, n. 493, come successivamente modificato) – poi seguite dalle disposizioni a carattere generale contenute dapprima nel decreto legislativo n. 80 del 1998 (in parte qua non dichiarate incostituzionali) e nella legge n. 205 del 2000, e poi nel codice del processo amministrativo; - forme di reintegrazione in forma specifica, che il giudice amministrativo, nelle materie dell’urbanistica, dell’edilizia e dei servizi pubblici – materie di giurisdizione esclusiva – può disporre per il risarcimento del danno ingiusto.
Sulla base di tale quadro normativo, è stato introdotto nel diritto pubblico un sistema in cui al giudice amministrativo è devoluto il potere di condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno da illegittimo esercizio del potere pubblico, in una logica, come l’ha definita la Corte costituzionale, “rimediale”, e cioè come “strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione” (Corte costituzionale, sentenza 26 luglio 2004, n. 204), al precipuo scopo di garantire l’osservanza del principio dell’effettività e pienezza della tutela giurisdizionale, sancito a livello europeo dall’art. 47, comma 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e poi codificato a livello nazionale anche dal già citato art. 1 c.p.a.
La competenza del giudice amministrativo in tema di risarcibilità degli interessi legittimi
Il codice del processo amministrativo riconosce espressamente all’articolo 7 la competenza del giudice amministrativo a pronunciarsi su qualsiasi tipo di controversia che abbia ad oggetto interessi legittimi.
In particolare: “Sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma”.
Vanno lette in combinato disposto con la disciplina contenuta nel comma 4 dell’articolo 7, le disposizioni racchiuse nell’articolo 30, rispettivamente ai commi 2 e 4: viene riconosciuta la possibilità di domandare la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria (art. 30, comma 2 c.p.a.),nonché derivante dall’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento (art. 30, comma 4 c.p.a.).
L’ingiustizia del danno come elemento caratterizzante la responsabilità aquiliana della pubblica amministrazione
La pronuncia in esame sostiene che l’esercizio contra legem della funzione pubblica, manifestatosi tanto con l’emanazione di atti illegittimi quanto con un’inerzia colpevole, è fonte di responsabilità, e, nello specifico, della responsabilità aquiliana fondata sul principio generale del neminem laedere di cui all’art. 2043 del Codice civile, secondo il quale “qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
L’ingiustizia del danno è l’elemento caratterizzante la responsabilità aquiliana, che va provata in giudizio, a differenza di quanto avviene per la responsabilità da inadempimento contrattuale dove l’ingiustizia è intrinseca nel fatto di non aver eseguito o aver eseguito in maniera non conforme al regolamento contrattuale la prestazione.
Tipicità del carattere ingiusto del danno è che il relativo risarcimento potrà essere riconosciuto se l’esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso un bene della vita del privato, che altrimenti, in assenza di un esercizio contra legem, egli avrebbe continuato a mantenere o avrebbe avuto titolo di ottenere.
L’Adunanza plenaria chiarisce che, nella fattispecie posta al suo esame, per far sì che possa configurarsi il requisito dell’ingiustizia, è necessario che si provi che il superamento del termine di legge abbia impedito al privato di ottenere il provvedimento ampliativo favorevole.
Viene in rilievo, dunque, un ulteriore elemento: il tempo.
Il tempo e la condotta del privato
Il tempo non costituisce un bene risarcibile ex se, ma lo diviene se il ritardo della pubblica amministrazione nel provvedere all’esercizio del potere che gli spetta ex lege abbia causato la lesione all’interesse al bene della vita.
Riferimenti normativi in tal senso vengono dati dalla legge n. 241/1990:
- l’art. 2-bis prevede il risarcimento del danno ingiusto cagionato dall’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento;
- l’art. 2 disciplina in termini generali la stessa conclusione del procedimento.
In particolare, l’articolo 2 della legge n. 241/1990, oltre ad enunciare il dovere di concludere il procedimento con provvedimento espresso (comma 1), prevede uno strumento di cooperazione con il privato istante, finalizzato a superare l’inerzia dell’amministrazione, incentrato sul potere di avocazione dell’affare (commi 9-bis – 9-quinquies).
L’istituto assume un ruolo centrale nella fattispecie di responsabilità dell’amministrazione per danno da ritardo, in quanto la sua attivazione da parte del privato è indice di serietà ed effettività dell’interesse legittimo di quest’ultimo ad ottenere il provvedimento espresso.
Inoltre, a parere dei giudici amministrativi il mancato utilizzo di tale strumento può concorrere a costituire comportamento valutabile ai sensi dell’art. 30, comma 3, c.p.a: “Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.
Dalla lettura della norma si deduce che il comportamento del privato può assumere rilievo come fattore di mitigazione o addirittura di esclusione del risarcimento del danno ai sensi dell’art. 30, comma 3 c.p.a., laddove si accerti “che le condotte attive trascurate (…) avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del danno” (in tal senso, Adunanza Plenaria 23 marzo 2011 n. 3).
Può affermarsi che la condotta del privato, più che rispetto all’an, rileva principalmente in relazione al quantum del risarcimento
L’onere di cooperazione che incombe in capo al privato può essere ricondotto allo schema di carattere generale del concorso del fatto colposo del creditore previsto dall’art. 1227, comma 2, c.c., applicabile alla responsabilità da fatto illecito in quanto richiamato dall’art. 2056 c.c.
Nei rapporti con la pubblica amministrazione e nei confronti dell’esercizio del potere pubblico l’onere di collaborazione del privato assume i connotati di un obbligo positivo che si concretizza nel porre in essere quelle condotte, anche positive, esigibili, utili e possibili, rivolte a evitare o ridurre il danno, con la sola esclusione di attività straordinarie o gravose attività, per cui “non deve essere risarcito il danno che il creditore non avrebbe subito se avesse serbato il comportamento collaborativo cui è tenuto, secondo correttezza” (così ancora l’Adunanza Plenaria nella sentenza del 23 marzo 2011 n. 3).7
La quantificazione del danno
Nel caso in esame, si è visto, il bene da risarcire è il tempo.
Il tempo, abbiamo detto, non è un bene risarcibile ex se, ma assume dignità di interesse risarcibile quando il ritardo abbia causato una lezione e per effetto della medesima si sia prodotto un danno ingiusto.
La disciplina contenuta negli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c., attinente al danno-conseguenza, è la medesima sia per la responsabilità da inadempimento contrattuale sia per la responsabilità da fatto illecito, in virtù del richiamo dell’art. 2056 c.c. ai suddetti articoli.
In tal senso è costantemente orientata la giurisprudenza amministrativa (da ultimo ribadita da: Cons. Stato, II, 21 dicembre 2020, n. 8199, 25 maggio 2020, n. 3318; III, 2 novembre 2020, n. 6755; IV, 8 marzo 2021, nn. 1921 e 1923, 1° dicembre 2020, n. 7622, 20 ottobre 2020, n. 6351, 22 luglio 2020, n. 4669; V, 2 aprile 2020, n. 2210; VI, 15 febbraio 2021, n. 1354, 26 marzo 2020, n. 2121).
Le considerazioni dell’Adunanza Plenaria
Sul punto l’Adunanza Plenaria afferma che anche nei casi di danno derivante da mero ritardo è necessario che venga provato sia il danno-evento, e quindi la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale, sia il danno-conseguenza, e dunque le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate, sia i relativi rapporti di causalità rispetto alla condotta scorretta che si imputa all’amministrazione.